Psicopedagogista, dottore di ricerca in Psicologia delle organizzazioni. Sono nata a Torino nel 1965, e tra la mia città e Bologna ho compiuto i miei studi e la mia attività di ricerca, che è formalmente proseguita fino al 1998. A quell’anno risalgono alcune scelte importanti per il mio percorso di vita, prima tra tutte quella di allontanarmi dalla carriera universitaria - dettata dalla forte esigenza di testare in autonomia, e al di là della mano protettiva dei mentori, le strade del mondo reale, oltre che di quello intellettuale. La seconda, di avviare un’analisi didattica a orientamento lacaniano, che si è faticosamente, felicemente condotta e compiuta nell’arco di sette anni.

Dopo qualche soggiornare in giro per l’Europa, a tutt’oggi risiedo a Torino, dove tra alti e bassi ho esercitato in libera professione l’attività di psicopedagogista, sebbene abbia anche sempre svolto in parallelo quella di consulente editor per alcune case editrici, occupandomi prevalentemente della gestione di collane didattiche di filosofia e di scienze umane. Per hobby, e anche per scongiurare il pericolo di un irrigidirsi pregiudizievole del pensiero, rischio che corre chiunque si occupi del difficile compito di approcciare l’essere umano tentando di attenersi ai rigorosi criteri del metodo, mi capita ogni tanto di tradurre e pubblicare qualche classico della letteratura anglosassone. Qui potrete trovarne qualche buffo esempio.  Ho un figlio di ventidue anni, che si è preso ben guardia dal continuare la tradizione materna e che ha optato per gli studi matematici, sebbene ogni tanto non disdegni di ascoltarmi con bonarietà, nelle rare occasioni in cui mi capita scherzosamente di sfoggiare alcuni dei miei “attrezzi del mestiere”, concetti classicamente legati alla psicologia che tuttavia riterrei riduttivo relegare a quel solo ambito. Più avanti capirete il perché di questa mia mania multidisciplinare. So che è stato in parte illuminato da alcuni di questi - non certo per merito mio ma per via della loro portata intrinseca -  anche se non lo ammetterà mai del tutto. So che dentro di lui lavoreranno nel tempo. Questo è anche uno dei motivi per cui ho deciso di chiamare TETI il centro studi che questo sito vorrebbe inaugurare, un lemma che unisce due distinte figure: la dea nettuniana, l’antica Tiamat babilonese, mostro e nume marino che rende il senso dell’oceanico e mai concluso divenire del sapere ma anche delle insondabili strutture che, nascoste nei fondali, legano tra di loro le fondamenta delle diverse discipline. Inoltre, la nereide madre di Achille, colei che è in grado di “trovare le parole” del conforto, emblema dell’opera in cui è coinvolto chiunque si occupi, a vario titolo, di educazione e di sostegno.

Questo, e per sommi capi, sarebbe tutto e forse anche troppo, per quanto mi riguarda; ma sento fortemente la necessità di approfondire alcuni aspetti del mio pensiero, di come questo si è configurato e di come è evoluto nel tempo, non tanto per continuare a parlare di me ma per rendere il senso di una ricerca che, sebbene apparentemente diversificata, ha comunque mostrato nel suo divenire una inaspettata coerenza interna. E il senso di questa coerenza è ciò che vorrei trasmettere a chi frequenterà questo spazio, per offrire da subito un orientamento di fondo che accompagni mentre ci si aggira tra le differenti proposte teoriche offerte alla lettura. Non riuscirei a descrivere il mio personale percorso di studi e di ricerca se non attraverso il riferimento ad alcune figure che in esso mi hanno sostenuta e accompagnata. Passo quindi e senza indugi alla rassegna, sempre con immutato senso di riconoscenza:

 Dalla mia collaborazione con Giorgio Girard, che a partire dagli anni ottanta ha tenuto a Torino la cattedra di Psicologia della personalità e, in seguito, di Psicologia delle comunicazioni di massa, ho imparato l’importanza del ragionamento trasversale, del tenere ben salda la focalizzazione razionale su alcuni costrutti della psicologia, tenendo presenti gli specifici modelli di riferimento ma tentando allo stesso tempo la loro “messa alla prova” rispetto a un orizzonte culturale allargato. Al momento della sua morte, avvenuta due anni fa, Girard, prima sociologo e psicologo del lavoro a Trento, in seguito psicologo cognitivista, poi studioso della “soggettività debole” in psicologia con un forte riferimento all’opera di Jung e di Hillman, teorico della “simulazione sociale”, infine e a coronamento approdato a orizzonti di carattere più spirituale, è stato infatti ricordato e celebrato come filosofo. Questo dice tutto della complessità a volte anche dolorosa, senz’altro combattuta, del suo pensiero. A partire dal suo insegnamento e dalla quasi decennale vicinanza quotidiana, non c’è stato più un solo momento in cui, nello studio, nell’elaborazione di un’ipotesi di ricerca, nel semplice interrogarmi, non abbia tenuto conto di questa scelta di prospettiva, che nel tempo è diventata una forma mentis. Così, ancora adesso, ogni volta che mi sembra di individuare la pregnanza di qualche concetto, di una definizione o di un semplice spunto di riflessione, mi è quasi immediato ricorrere a una visione “multidisciplinare” dello stesso, dove psicologia, filosofia, scienze cognitive, psicoanalisi, a volte anche letteratura concorrono nel dare o sottrarre spessore concettuale al pensato. A Giorgio devo anche, e soprattutto, il mio primo avvicinamento alla psicologia analitica junghiana, in un momento in cui nelle facoltà di psicologia occuparsi di Jung era considerato istituzionalmente e professionalmente controproducente. Un faro che da allora ha sempre definito i solchi e segnato la strada.

Grazie a Nicola Peluffo, docente di Psicologia dinamica all’università di Torino, mio correlatore alla tesi di laurea, amico, figura paterna dagli occhi chiari e vivaci che strabuzzavano ogni volta in cui sospettava che si fosse alle prese con qualche interessante guizzo del pensiero, mio affettuoso sostenitore, cui devo anche la prima delle mie scarne pubblicazioni scientifiche, ho potuto approfondire alcuni aspetti della psicoanalisi che inseriscono questa disciplina in una visione epistemologica più adatta ad accogliere le istanze della contemporaneità, in ottemperanza al mandato di con cui Edgard Morin raccomanda di “inserire tutto, ogni evidenza, ogni rilevanza, in un costrutto che sia omogeneo e coerente rispetto alle comprovate evidenze dei correnti paradigmi scientifici”. Da Peluffo ho poi tratto l’insegnamento più importante, di cui è molto difficile rendere il senso ma che spero potrà in qualche modo emergere tra le proposte che verranno man mano avanzate in questo contenitore di idee e di prospettive: guardare all’altro con compassionevole benevolenza, con la consapevolezza del fatto che condividiamo con le nostre controparti l’essere gettati in un insieme di dinamiche, di energie che ci determinano e ci definiscono ben oltre le nostre capacità di controllo, e che spesso minano il nostro stesso percepirci come identità definite e coerenti. Capire l’eroismo dei tentativi che a volte non possiamo fare a meno di abbozzare nel nostro quotidiano, degli sforzi che costellano le nostre esistenze. Questo ritengo sia anche il maggior punto di contatto tra l’insegnamento di Nicola Peluffo e quello di Giorgio Girard, il tirare le somme su una visione del soggetto della psicologia indomito sebbene “indebolito”, reso fragile dalla sua stessa ricerca di senso. A questo confronto ho dedicato la mia tesi di laurea, che aveva come titolo Il soggetto come tentativo.

A Ivar Oddone e a sua moglie, nonché principale collaboratrice, Alessandra Re, devo il fatto di avermi messa al cospetto di una eccezionale onestà e cristallinità del pensiero, di avermi avvicinata ai modelli più ortodossi delle scienze cognitive, funzionalmente legati all’ambito in cui in quegli anni, attraverso la cattedra di Psicologia del lavoro, si esercitava la loro ricerca attiva: il sindacato, la medicina del lavoro, le analisi ergonomiche e di rischio negli ostici ambienti delle industrie del torinese.  A loro devo il secondo dei miei sparuti contributi formali alla ricerca: il tentativo di stabilire un incrocio tra un modello cognitivista  e quella particolare teoria motivazionale che lo psicologo ungherese naturalizzato americano Mihály Csíkszentmihályi andava elaborando con il termine di “Flusso di coscienza”, argomento, quest’ultimo, che è tornato fortemente alla ribalta grazie anche a un rinnovato interesse verso le cosiddette teorie del benessere mentale, entro le quali può per certi aspetti essere annoverato. In particolare, la mia ipotesi che durante le esperienze di flusso di coscienza fossero attivi quelli che la teoria cognitivista classica definisce “piani di comportamento automatico”, e che adesso vengono generalmente ricondotti all’alveo delle ricerche sull’apprendimento implicito, ha trovato recentemente una sostanziale convergenza teorica in alcuni studi di carattere neuro scientifico promossi soprattutto da Arne Dietrich, docente di neuroscienze all’Università Americana di Beirut. La questione resta aperta, ci stiamo ragionando, sto cercando di approfondire, e vi terrò senz’altro aggiornati sugli eventuali sviluppi futuri. Lunica cosa che al momento posso affermare con certezza è che la teoria di Flusso di coscienza - che va ben oltre il generico riferimento al "benessere" e alla felicità entro cui ultimamente è stata forse un po' riduttivamente relegata, e che consiste in una sostanziale, fondante teoria dei valori - resterà come riferimento costante dei miei tentativi di approfondimento. E non mi stupisce il fatto che in essa emergano, in modo sempre più evidente, molti nessi con l'orizzonte junghiano. 

Che dire, infine, di Enzo Spaltro? Il padre fondatore della psicologia del lavoro italiana, con cui ho avuto l’onore di compiere il triennio di dottorato di ricerca all’Università di Bologna. Basti una frase, per definirlo: “La speranza è la declinazione temporale del collettivo”. Credo che contenga tanto del suo pensiero, o almeno di quello che di questo sono stata in grado di recepire. L’attenzione al benessere nei contesti organizzativi, prima di tutto, inteso come il frutto di una serie di percorsi incisivi, metodologicamente rilevanti, che hanno alla loro base un assunto teorico preciso, incentrato sul passaggio dal primato della relazione duale a quella del gruppo. Attraverso questo passaggio, questa sua particolare e prolifica rivisitazione del concetto di triade edipica, Spaltro aveva individuato il criterio e l’ambito di analisi della gran parte delle dinamiche caratteristiche dell’esperienza organizzativa: lo stemperamento dei meccanismi del potere, la predisposizione al cambiamento, lo sviluppo, la visione del futuro. In questa visione del soggettivo - che attraverso il concetto di “sintalità” allarga al contesto del piccolo gruppo la visione “gestaltica” di un’identità non riconducibile alla semplice somma dei suoi componenti, un quid di senso che nel plurale apre anche per il singolo attore orizzonti impensati - ho ritrovato quel filo conduttore che mi era sembrato unisse in parte le proposte teoriche legate alle mie precedenti esperienze: il ragionare sul concetto di una soggettività decentrata, alla perenne presa con l’altro da e del sé, priva di un fondamento stabile ma aperta alle prospettive dell’individuazione, per usare un termine noto e che qui ricorrerà spesso.

 Al sonno profondo e carico di sogni, alle vicende della vita e soprattutto alle profondità delle relazioni umane che ho avuto la fortuna di intrecciare devo infine la mia unica certezza, che è quella della realtà dell’inconscio. Oltre non vado, perché questo mi porterebbe verso un limite rispetto al quale ho imparato a chinare il capo, accettando di essere al cospetto dell'indicibile, di qualcosa che va al di là della nostra capacità di trovare il bandolo tra cognizione e esperienza emotiva. Si tratta, questo vorrei dirlo, di un approdo molto benevolo. 

 A cosa sto lavorando adesso, quindi “perché questo sito?”. Lo dirò in modo molto stringato, perché credo di essere debitrice di uno sforzo di sintesi a chi sia arrivato al fondo di questa rassegna: sono una psicopedagogista, nonostante tutto. Non solo perché questa è la mia formazione di base ma soprattutto perché, nel divagare ragionato tra approcci apparentemente lontani, tra le diverse prospettive che ho ritenuto di dover approfondire nel tempo, il criterio, l’aspetto che man mano mi è sempre sembrato emergesse come un implicito comune, non ancora del tutto sondato nella sua effettiva portata, sia quello di uno sfondo sostanzialmente etico di tutti i costrutti con cui il mio personale percorso di crescita mi ha messa a contatto. Concepisco la pedagogia non tanto come un incentrarsi dell’interesse e dell’attenzione sull’oggetto specifico dell’età evolutiva ma come una scelta di campo e di metodo, e la mia principale prospettiva di ricerca si è ormai assestata in questo senso, nel tentativo di “estrarre” dai diversi modelli che le scienze umane ci mettono a disposizione quello sfondo di eticità “ragionata”, a tratti contro intuitiva, forse, certo non moralistica o didascalica, adatto a informare e ad arricchire di nuove suggestioni  la prassi dell’educazione e della formazione in senso lato, a sostenere la responsabilità della presa a carico e a definirne i valori, e i limiti, di fondo. Questo spazio è il mio modo di essere “libro aperto”, di rendere partecipe chiunque sia interessato delle tappe di questa peculiare ricerca, nel tentativo di dare il mio contributo e di accogliere (lo farò con grande piacere) anche quelli di chi riterrà di volervi attivamente partecipare.

PUBBLICAZIONI

Il soggetto come tentativo, Bollettino dell'Istituto Italiano di Micropsicoanalisi, n° 15, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992.

Tempo e pluralità. Una proposta di lettura di modelli di clima organizzativo, Tesi di Dottorato depositata alle Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze, 1997.

Dal pensiero all'azione. Ipotesi per una lettura milleriana dell'esperienza ottimale, in Psicologia Italiana, Pàtron Editore, 1998.

Schede didattiche, Lettura del testo iconico, in L. Tornatore, P.A. Ferrisi, G. Polizzi, Filosofia. Testi e argomenti. Antichità e Medioevo. Loescher Editore, Torino, 2000.